A circa sette chilometri da Vieste, nei pressi della provinciale che corre in direzione sud-est verso la Foresta Umbra una chiesina indica il luogo dell’antica Merino. E’ l’unico ricordo di una città che doveva avere una certa importanza nell’antichità. Nessuno sa come la città sia stata distrutta e abbandonata. Alcuni storici locali ipotizzano che il cambiamento delle condizioni climatiche avrebbe favorito il sorgere della malaria; altri ravvisano la causa dello spopolamento nella troppa esposizione alle incursioni saracene. L’inizio della distruzione di Merino dovrebbe esser posta intorno al sec. X. Qualcosa della vecchia città, tuttavia, sopravvisse: una statua della Vergine Maria che la tradizione dice essere stata rinvenuta da alcuni marinai sul lido di Scialmarino. Gli studi compiuti in questi ultimi decenni dicono che si tratta di una pregevole scultura in legno di tiglio scolpita fra il XIV e XV secolo e portano alla conclusione che l’opera è la parte superstite di un gruppo raffigurante la scena dell’Annunciazione. Sotto questo titolo il devoto popolo di Vieste ha sempre onorato la sua Madonna di Merino. Il ritrovamento della statua riaccese nei viestani l’interesse per la distrutta città di Merino per cui nel sec. XV sulle rovine sepolte fu costruita una chiesetta. La cappella divenne subito un importante centro spirituale per Vieste e per tutta la zona; fu subito meta di pellegrinaggi. Ebbe però anche vita dura. Il 12 settembre 1480 i Turchi di Acmet Pascià, dopo aver razziato e bruciato la città di Vieste, non trovarono niente di meglio che incendiare la chiesa di Santa Maria di Merino. Antonio di Montecatino, inviato della repubblica di Firenze, nella sua relazione sull’incursione di Acmet Pascià, ci dà delle preziose notizie sulla devozione di cui era circondata la cappella: la chiesa di Santa Maria di Merino godeva di tanta devozione da potersi paragonare alla Madonna di Loreto. La statua fu conservata dapprima, come cimelio prezioso, nella sacrestia della cattedrale. Nel sec. XVII ebbe, nella stessa cattedrale di Vieste, una cappella tutta sua costruita e dotata dall’Università. La festa si svolge il 9 maggio. Dopo il pontificale in cattedrale, la processione col Vescovo e il Capitolo attraversa tutta la città. Al limite dell’abitato il corteo si scioglie e la statua, accompagnata dal parroco e da una moltitudine di pellegrini, prosegue verso santuario lungo i sentieri del litorale. In questo tratto la faccia della Madonna è rivolta verso il mare in segno di benedizione. Dopo il canto del Te Deum e la benedizione dei campi, la Madonna vien riportata in città dove è attesa dal Vescovo e dal Capitolo per l’ultima parte della processione. Nel tratto di ritorno il viso della Madonna si volge verso la campagna. Quasi quindici chilometri, fra andata e ritorno, pieni di canti, raccoglimento e preghiera. Una volta la processione era animata da una ritualità che alla devota commozione suscitata dalla Madre di Dio in visita al suo popolo, univa la forza della tradizione che, rendendo attuale la storia antica, riaffermava i valori profondi in cui la gente ritrova sempre le sue radici. Quando la processione arrivava alla spiaggia di Scialmarino, i pellegrini che seguivano a cavallo si lanciavano sulla spiaggia in rapidi e complicati caroselli. I viestani fino ai primi decenni del sec. XIX, hanno sempre vissuto con la paura di vedere spuntare all’orizzonte le vele dei pirati turchi. L’orribile strage compiuta il 15 luglio del 1554 dalle orde del sanguinario Dragut Rais resta ancora nei ricordo dei viestani come il momento più drammatico della storia della città. La “Chianca amara” su cui vennero scannati donne, vecchi e bambini, sarà sempre un monumento alla ferocia umana. Qualche volta i turchi, sbarcati di nascosto, si appostavano lungo le strade per derubare i viandanti e catturare schiavi. Neppure la processione della Madonna era immune da questo flagello. Così i bravi cittadini di Vieste istituirono un corpo armato che proteggesse la processione e organizzasse la festa in modo che tutto filasse liscio e sereno. Qualche giorno prima del 9 maggio un banditore chiamava a raccolta gli uomini validi, avvezzi alle armi. A comandarli si chiamava un “camerlengo” a cui le magistrature cittadine, per tutta la durata della festa, affidavano i poteri civili e militari. La sera dell’otto maggio il corpo armato si schierava dinanzi al castello. Dal portone usciva il castellano in grande uniforme e consegnava al camerlengo il bastone del comando. Il camerlengo era il comandante assoluto della città per l’intero giorno della festa. Organizzava le ronde contro i pirati e i briganti, ordinava la processione, s’occupava dei lumi che accompagnavano la Madonna. Alla fine della festa si ripeteva la cerimonia dinanzi al castello; il camerlengo ridava al castellano il suo bastone e tutto ritornava come prima.